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Diffamazione sui social come Instagram, Snapchat, Facebook, Tik Tok, Twitter

Diffamaz​ione a mezzo social network

Disciplina ​di riferimento e alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali​

15/05/2020

Uno sguardo alla disciplina generale.

Il reato di diffamazione è disciplinato dall’art. 595 del codice penale, che punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1.032.

La disposizione individua tre elementi oggettivi che integrano il presente reato:

1)l’offesa alla reputazione di una persona;

2)l’assenza del soggetto offeso;

3)la comunicazione dell’offesa ad almeno due persone.


Il bene tutelato è la reputazione dell’uomo, intesa come la stima diffusa nell’ambiente sociale, l’opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro.

Affinché l'offesa costituisca diffamazione è necessario che essa non sia stata recepita dalla persona a cui si riferisce, perché assente o, altrimenti, perché non ha percepito l’offesa. Quest’ultimo elemento distingue la fattispecie in esame dal reato di ingiuria, oggi depenalizzato, che si consuma in presenza del soggetto offeso.

Infine, l’ultimo requisito oggettivo riguarda la modalità comunicativa con cui si danneggia la reputazione altrui, che deve raggiungere almeno due soggetti diversi, anche se non necessariamente nello stesso frangente.


La diffamazione sul web.

Al sempre più diffuso utilizzo dei social networks si è accompagnata una significativa comparsa dei casi di diffamazione consumati proprio su questi canali, probabilmente anche a causa di una sbagliata percezione di questi “luoghi” come zone franche nelle quali sentirsi liberi di dire qualsiasi cosa senza poter rischiare nulla.

La realtà dei fatti è completamente diversa; come precisato più volte dalle nostre Corti, la diffamazione consumata per mezzo dei social networks non solo costituisce reato, ma integra l’ipotesi di diffamazione aggravata prevista al terzo comma dell’art. 595 c.p., che sanzione il caso di offesa recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad € 516, “in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone” (Cass. pen. V sez., 22 febbraio 2017, n. 8482).

Prendendo come riferimento Facebook, può parlarsi di diffamazione, allora, sia che l’offesa sia pubblicata sulla propria bacheca (salva l’ipotesi alquanto remota, che il profilo sia privato e non si abbia alcun amico), sia che sia postata sulla bacheca del soggetto offeso o nei commenti ad un suo post, sia che sia diffusa all’interno di un gruppo o una pagina.


Oltre alle conseguenze sul piano penale e della responsabilità civile di una condotta diffamatoria, devono tenersi a mente anche le possibili implicazioni sul rapporto di lavoro.

A tal riguardo, una sentenza della Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di una dipendente che, sulla sua bacheca personale di Facebook, aveva denigrato la società per cui lavorava ed offeso il suo datore di lavoro, in quanto tale comportamento era idoneo a recidere il vincolo fiduciario che caratterizza necessariamente il rapporto di lavoro e rendeva impossibile la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto stesso (Cass. civ. sez. lavoro, 27 aprile 2018, n. 10280).


Conclusione.

In conclusione, bisogna pensare alla presenza in internet come alla presenza in un luogo fisico e reale, dove parole, frasi, espressioni offensive hanno una rilevanza pari, se non più grave, a quelle diffuse nella società reale. Solo così, probabilmente, si può evitare di incappare in una delle tante insidie che nasconde il web.

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